Capitolo tredicesimo: Donne e abbigliamento. Chi decide cosa indossare?

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Articolo redatto in collaborazione con Alessia Moratto, esperta in advocacy e diritti umani

L’abbigliamento femminile è da sempre oggetto di conversazione e, spesso, di giudizio. In diversi ambiti e contesti le donne vengono discriminate a causa di cosa scelgono di indossare: a volte vengono giudicate per un indumento ritenuto poco coprente, altre volte per il motivo opposto. La domanda che viene spontaneo porsi è CHI sceglie cosa sia “decoroso” indossare.

Limitazioni da parte dei governi
In alcuni paesi le donne non possono decidere liberamente cosa indossare e sono gli stessi governi a vietare alcuni indumenti “in nome del rispetto del decoro morale e dell’ordine sociale”.
Fino al 2019, in Sudan alle donne era vietato indossare pantaloni e portare i capelli scoperti.
In Corea del Nord è invece bandito lo streetwear, quello che noi conosciamo come abbigliamento più casual. 
In Uganda gonne corte e shorts sono vietati, mentre in Arabia Saudita lo sono i vestiti che lasciano lembi di pelle scoperta.
Regolamenti totalmente differenti sono presenti in Europa. In Belgio e Svizzera è vietato indossare il burqa (velo che copre l’intero corpo, dalla testa a piedi, compresi gli occhi, schermati da una struttura di stoffa fatta a griglia), mentre in FranciaDanimarca e Austria lo sono sia il burqa che il niqab (velo che copre il capo e il volto lasciando una striscia libera per gli occhi).
In Francia si discute inoltre sul divieto per i/le minorenni di indossare in pubblico qualsiasi segno religioso evidente e qualsiasi abbigliamento che indicherebbe l’inferiorità delle donne rispetto agli uomini. La proposta è attualmente al vaglio dell’Assemblea Nazionale, dopo essere stata approvata dal Senato.
In Italia, nel 2018, i media hanno riportato il caso di una giovane praticante avvocata alla quale è stato negato di assistere ad un’udienza presso il Tar dell’Emilia-Romagna poiché indossava l’hijab (sciarpa che copre viso e collo, ma lascia il volto scoperto). Sulla questione è intervenuto poi il Presidente del Consiglio di Stato.

Limitazioni per motivi religiosi
In più di 50 paesi nel mondo è in vigore almeno una legge o regolamento (locale o nazionale) che definisce ciò che le donne devono/non devono indossare per motivi religiosi:
– 38 paesi vietano alle donne di indossare abiti religiosi in alcune situazioni;
– 11 paesi richiedono alle donne di indossare abiti religiosi in determinate circostanze;
– 1 paese, la Russia, le possiede entrambe: in Cecenia alle donne è richiesto di indossare il velo negli edifici pubblici, mentre a Stavropol’ l’l’hijab è proibito nelle scuole pubbliche.

Anche nello sport l’abbigliamento femminile è sempre sotto esame
Qualche settimana fa è stata pubblicata da alcuni giornali internazionali la notizia che una ginnasta, Sarah Voss, ha deciso di indossare un body intero (dalle gambe alle caviglie) durante una competizione internazionale. Il suo gesto ha destato l’interesse dei giornalisti sportivi perché fino a quel momento vigeva una (tacita) regola secondo cui le ginnaste dovessero indossare dei semplici body per gareggiare, con la sola eccezione per motivi religiosi. Regola che però non si applica ai ginnasti, che possono scegliere liberamente se indossare pantaloni lunghi o corti.
Numerose atlete hanno condiviso la presa di posizione di Voss, considerandola un precedente positivo per la riaffermazione della libertà di scelta individuale ed un passo importante per la lotta alla sessualizzazione nella ginnastica.
Restando nell’ambito, per le donne che portano l’hijab, praticare sport può comportare una serie di sfide, sia dal punto di vista pratico che burocratico.
Se negli ultimi anni i produttori di abbigliamento sportivo hanno saputo rispondere alle potenziali limitazioni fisiche che alcuni indumenti potrebbero causare alle atlete, dal punto di vista burocratico vi sono spesso impedimenti apparentemente insuperabili: le normative di alcune associazioni sportive stabiliscono infatti che le atlete non possano prendere parte alle competizioni nazionali ed internazionali se non rispettano determinati codici di abbigliamento. Ciò si applica anche all’hijab.

Violenza di genere: non bisogna chiedere ad una vittima “Com’eri vestita?”
Secondo l’Istat, il 24% della popolazione italiana ritiene che le donne possano provocare una violenza sessuale attraverso il loro modo di vestire, affermando quindi che la scelta della vittima di indossare determinati indumenti rappresenti una sorta di “giustificazione” alle azioni dell’aggressore. 
Nel 2019, in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne e in adesione alla campagna di attivismo “Generation Equality: stands up against rape”, è stata inaugurata una mostra-installazione itinerante dal titolo “Com’eri vestita?” per sensibilizzare la popolazione italiana sulle conseguenze della “cultura dello stupro” e sugli stereotipi, culturali e di genere, che ancora esistono sulla correlazione tra una vittima di stupro e gli abiti da lei indossati.

“La violenza non è colpa di chi la subisce, ma una scelta dell’aggressore”

La nascita del Demin Day 
Il 29 maggio in diverse città del mondo si celebra il Denim Day, una giornata di lotta, sensibilizzazione e protesta contro la violenza di genere. Il primo Denim Day è stato indetto in California da Patti Giggans, presidente di Peace Over Violence, per protestare contro una sentenza della Corte di Cassazione italiana pronunciata nel novembre 1998. Quest’ultima riguardava il caso di stupro di una ragazza ad opera del suo istruttore di guida e annullava la precedente sentenza formulata in appello (dopo un’iniziale assoluzione dell’accusato per “insussistenza del fatto” ad opera del Tribunale di Potenza) nella quale si condannava l’uomo a due anni e due mesi di reclusione.
Successivamente la Corte di Cassazione si espresse in merito alla questione e i giudici affermarono che non si poteva parlare di stupro in quanto la ragazza al momento dell’aggressione indossava dei jeans e che, trattandosi di un capo di abbigliamento aderente, sarebbe stato impossibile per l’aggressore sfilarli senza consenso.
L’indicazione che la scelta dei jeans o dell’abbigliamento da parte delle donne sia indicativa di consenso ha suscitato indignazione e proteste diffuse. Il giorno dopo la decisione alcune parlamentari italiane hanno protestato indossando jeans ed impugnando cartelli con la scritta “Jeans: An Alibi for Rape” (“Jeans: un alibi per lo stupro”). La sentenza è stata poi ribaltata dalla Corte di Cassazione nel 2008.

Fonti:
BBC Sport (2021), Danusia Francis: ‘Full body suits give the power back to the gymnast’
BBC Sport (2021), Sarah Voss: German hopes full-body suits make young gymnasts feel safe
Add Editore (2020), Joni Seager – Atlante delle donne
Pew Research Center (2020), Women in many countries face harassment for clothing deemed too religious – or too secular
ISTAT (2019), Gli stereotipi sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza sessuale
Onu Italia (2019), “Com’eri vestita?
Euronews (2019), Violenza sulle donne “Com’eri vestita?”, la domanda che non va più fatta
World Economic Forum (2016), 5 countries with the strictest dress codes
Pew Research Center (2016), Restrictions on Women’s Religious Attire
D.I.RE (2015), Denim Day contro la violenza alle donne
The New York Times (1999), Ruling on Tight Jeans and Rape Sets Off Anger in Italy